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io_viaggio_leggero | 26 aprile 2025, 07:00

Il viaggio oggi: abitudine, evasione o consapevolezza?

In questa rubrica troverete anche approfondimenti e riflessioni sul mondo Tra-vel . Pensieri a voce alta e considerazioni su nuovi approcci e nuovi orizzonti; nel terzo millennio anche il modo di viaggiare è in continua mutazione. Gli inter-rogativi sono molti …

All’aeroporto, tra le code silenziose e le voci metalliche degli annunci, mi capita spesso di osservare chi parte. C’è un’energia particolare nei luoghi di passaggio: negli sguardi si legge l’attesa, dai bagagli si intuisce la direzione. Viaggiare è ormai una consuetudine, quasi un gesto automatico. Eppure, davanti a un gate, mi torna spontanea una domanda: perché partiamo oggi? Cosa cerchiamo davvero?

Negli ultimi trent’anni il concetto di viaggio ha subito una trasformazione profonda. Se negli anni Novanta rappresentava per molti un’esperienza straordinaria, oggi è diventato un gesto diffuso, quotidiano. I voli low cost, le piattaforme digitali e i social media hanno ridisegnato il mondo, rendendolo più accessibile, frammentato, immediato. Bastano pochi clic per raggiungere qualsiasi angolo del pianeta. È stata una rivoluzione che ha generato apertura culturale, crescita economica, democratizzazione del diritto al movimento. Ma con essa sono arrivate nuove sfide.

Oggi il turismo globale muove oltre un miliardo di persone all’anno. Di fronte a simili numeri, evitare il turismo di massa è quasi impossibile. Le città più visitate – da Venezia a Barcellona, da Tokyo a Dubai – faticano a reggere l’impatto. I luoghi rischiano di perdere la propria anima, trasformandosi in palcoscenici pensati per i visitatori. La tecnologia ha semplificato tutto: organizzare, prenotare, condividere. Ma cosa abbiamo smarrito in cambio? Forse l’imprevisto, l’incontro casuale, la deviazione inaspettata. Forse il tempo “inutile”, che poi tanto inutile non è. Seguire l’istinto, anche rischiando di sbagliare, faceva parte del viaggio. E oggi, che l’immaginario collettivo appare saturo prima ancora di partire, mi domando: è ancora possibile stupirsi? Raggiungiamo luoghi già raccontati da fotografie perfette, itinerari dettagliati, video emozionanti. E una volta arrivati, magari cerchiamo la stessa inquadratura vista online. Ma proprio lì, forse, dovremmo fermarci e chiederci: sto vivendo davvero questa esperienza, o sto solo inseguendo un’idea?

Sottrarsi a questa logica è possibile. Significa viaggiare in modo diverso, non per collezionare luoghi, ma per ascoltarli. Osservare, cogliere i dettagli, percepire la vita che scorre. Un viaggio non è una lista da completare, ma qualcosa da attraversare. In un vicolo del Sud America, in una piazza italiana o tra i caffè silenziosi del Nord Europa, se si è davvero presenti a ciò che accade, il luogo parla. E l’esperienza cambia. Anche un viaggio organizzato può essere autentico: non è la formula a fare la differenza, ma l’approccio. Se c’è curiosità, rispetto, disponibilità all’incontro, anche un itinerario condiviso può rivelarsi sorprendente.

Di fronte agli affollamenti e al turismo iconico, viene da chiedersi: ha ancora senso parlare di autenticità, di incontro, di profondità? Il punto non è evitare i luoghi frequentati – sarebbe illusorio – ma modificare il proprio sguardo. La soluzione non è nemmeno la fuga solitaria verso l’inesplorato: l’autenticità non risiede solo nella distanza, né nella rarità di un luogo, ma nel modo in cui lo si attraversa. Anche nel turismo più codificato esistono margini di movimento: un orario diverso, una strada laterale, una conversazione imprevista. Tra voci, flash e percorsi obbligati, vale la pena ricordare che una “cosa bella” rimane tale anche se fotografata mille volte. La bellezza non si consuma con la ripetizione, se lo sguardo resta personale.

Dopo la pandemia, la voglia di partire è nuovamente esplosa. Si viaggia “perché si può”, “perché domani chissà”, spesso senza porsi troppe domande. Per molti, il viaggio è una necessità fisiologica: un’occasione per staccare la spina, evadere dalla routine, ricaricare le energie. È un bisogno legittimo, che spesso si traduce in formule rassicuranti come le vacanze ai tropici, dove il comfort conta più della scoperta, e l’altrove serve più a dimenticare che a comprendere. Ma il rischio, così, è che il viaggio si riduca a un movimento meccanico, a una fuga più che a una ricerca. Eppure, proprio l’essere stati privati del tempo e dello spazio dovrebbe averci insegnato a viverli con maggiore intenzionalità. Oggi più che mai, esiste un’occasione concreta: quella di rallentare, cambiare prospettiva, essere consapevoli.

Viaggiare con consapevolezza significa scegliere come ci si muove nel mondo. È un atto di rispetto verso ciò che si incontra e verso sé stessi. Non basta cambiare scenario rispetto alla quotidianità: serve apertura, ascolto, curiosità sincera. A volte, ciò che mi colpisce in viaggio non è ciò che vedo, ma il modo in cui lo guardo. Ed è lì, in quello scarto sottile, che trovo il senso dell’esperienza. Alla fine personalmente, non cerco un panorama perfetto, ma un’emozione da ricordare. Perché non è questione di distanza, ma di profondità. Il viaggio ci mette di fronte a ciò che siamo e a ciò che potremmo essere. È in quello spazio fragile tra il conosciuto e l’inaspettato che restano le tracce più vere. Perché, alla fine, non conta quanto lontano siamo andati. Conta come siamo tornati.

Marco Di Masci

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